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Piombino - Cenni storici

Cronologia
dei principali fatti storici
Vicende dinastiche nella signoria
e principato di Piombino
Piombino dal medioevo
all'età contemporanea
   
PIOMBINO DAL MEDIOEVO ALL’ETÀ CONTEMPORANEA  

All’inizio del IX secolo d.C. il Mediterraneo occidentale era, come è stato detto, “al servizio dell’islam”: si trovava cioè nella fase in cui la civiltà europea era costretta a soccombere di fronte a quella irresistibile avanzata musulmana che solo un paio di secoli più tardi avrebbe esaurito la sua spinta. Fu proprio durante un’incursione araba sulle coste tirreniche che Populonia, la città di origine etrusca, venne assalita e distrutta. Era l’809 d.C., e la tradizione vuole che l’eredità del vecchio centro si sia trasferita alla zona meridionale del promontorio antistante l’Isola d’Elba, zona su cui un nuovo insediamento sorse, in stretta relazione con l’antico Porto Falesia (ora Portovecchio), già scalo del ferro che veniva dalle miniere elbane.


La necropoli di Baratti (Populonia)

Non siamo in grado, in verità, di stabilire con precisione se il borgo sia nato davvero dal nulla o se invece, più semplicemente, abbia ricevuto un sensibile impulso alla crescita per effetto delle sfortunate vicende di Populonia: il IX e il X sono infatti i ‘secoli oscuri’ della storia di Piombino, per la scarsità e la frammentarietà delle notizie pervenuteci. Solo dopo l’anno Mille le testimonianze sono tali da permettere una ricostruzione un po’ più dettagliata della dinamica degli insediamenti. Intorno alla metà dell’XI secolo, sul promontorio erano disseminati alcuni nuclei in rapporto fra loro nella parte settentrionale, i resti di Populonia e il ricco monastero di San Quirico; più a sud, un altro monastero, quello di San Giustiniano di Falesia (fondato in torno al 1022 dai Gherardesca), la Rocchetta, sulla quale il monastero estendeva la sua giurisdizione, e lo scalo di Portovecchio. Da un lato, dunque, c’era il borgo affacciato sul mare, che coltivava la sua naturale vocazione commerciale; dall’altro il monastero, da cui il borgo dipendeva, e che era attratto invece verso l’entroterra e la coltivazione del suolo, venendo in ciò a contrastare con le ambizioni dei signori feudali e con l’altra e ben più forte istituzione monastica, quella di San Quirico.

Questa realtà bipolare si situò in un gioco d’interessi che animavano un territorio certo ristretto, eppur strategicamente importante, se è vero che sul luogo non avrebbe tardato a farsi sentire l’egemonia di Pisa, città che conosceva in quei secoli una forte espansione commerciale e territoriale. Si conoscono le fasi del passaggio all’area d’influenza pisana: nel 1114 e nel 1135 l’abate di San Giustiniano cedette alla Chiesa pisana (all’opera della Cattedrale prima, all’Arcivescovo poi) il castello e la corte di Piombino, mentre alcuni decenni più tardi (1162) un breve imperiale sancì, se non l’acquisto, almeno una forma di protettorato sul luogo da parte della repubblica marinara di Pisa. Che non si trattò di una vera e propria conquista lo si desume dal fatto che Piombino poté ugualmente organizzarsi a comune, sviluppare le proprie istituzioni ed ampliare, pur entro il sistema pisano, la sua rete di traffici, consistenti soprattutto nello smercio del ferro dell’isola d’Elba, del grano di Maremma e del sale prodotto poco oltre i confini urbani. Tra la fine del XII e la metà del XIII secolo Piombino divenne il secondo principale attracco della repubblica marinara. E’ certo comprensibile il continuo interesse pisano per il territorio di Piombino, poiché le caratteristiche geografiche e le peculiarità ambientali di questo ne facevano un supporto strategico davvero prezioso per l’economia e la potenza militare della repubblica. Inattaccabile via mare, per le coste alte e rocciose, l’area piombinese presentava un immediato entroterra paludoso e scarsamente praticabile; inoltre, la presenza del lago di Rimigliano a nord, e dell’esteso stagno (o palude) di Falesia a sud, rendevano il borgo difficilmente raggiungibile anche via terra. A questa sorta di ‘isolamento’ geografico corrispondeva una situazione politica anch’essa poco assimilabile a quella dei coevi comuni maremmani; Piombino rimase tutto sommato ai margini delle lotte per il controllo della Maremma della prima metà del XIII secolo, potendo soltanto offrire il proprio appoggio alla dominante nel contrastare il potere di Massa nella pianura. Anche nell’aspetto istituzionale la vicenda di Piombino, in questo periodo, presenta sue proprie specificità: è sì un comune, ma non possiede tutte le ‘libertà’ dei comuni cittadini, né la sovranità completa su un territorio; e, del resto, non può essere definito un comune rurale o di contado, per la sua stessa collocazione geografica e per l’originaria dipendenza dall’arcivescovo pisano.

 Alla fine del ‘200, con la crisi e la decadenza di Pisa (soprattutto dopo la sconfitta della Meloria ad opera di Genova, nel 1284), anche Piombino attraversò un periodo di difficoltà interne, mentre l’allentarsi del controllo pisano provocò l’insorgere di violente lotte di fazione: un tentativo guelfo di impadronirsi della città fu tempestivamente sventato da Guido da Montefeltro nel 1289. Forse proprio a causa della situazione critica in cui versava Pisa allo schiudersi del XIV secolo, nonostante questi episodi di ribellione, Piombino non perse quella sua caratteristica di ‘comune federato’ con la città dominante che era venuto assumendo nei secoli precedenti.

Rimase intatto il rapporto di subordinazione (testimoniato con sicurezza dalla presenza, almeno dal 1248, di un rettore pisano), ma si definirono con altrettanta precisione spazi d’autonomia politica ed economica. La comunità piombinese provvide, lungo tutto il ‘300, a redigere autonomamente i propri statuti, che prevedevano, accanto al Capitano, gli Anziani, il Consiglio Minore e il Senato, composto d’undici membri. Il giudice piombinese, inoltre, svolgeva giurisdizione d’appello per alcune cause sottoposte in prima istanza ai giusdicenti del contado.

Questa marcata autonomia si accentuò nella seconda metà del XIV secolo; la concessione di privilegi fu la strada scelta da Pisa, ormai in decadenza irreversibile, per evitare la possibilità di tumulti da parte del luogo soggetto. Nel 1370, al culmine di lotte per la supremazia in Maremma, Giovanni dell’Agnello, un mercante pisano, concepì un piano per insignorirsi di Piombino e di un territorio che andava grosso modo da Campiglia a Castiglione della Pescaia; il tentativo fallì, ma le agitazioni piombinesi si riacutizzarono pochi anni dopo, nel 1374, allorché si rese necessario l’intervento di repressione dello stesso Benedetto Gambacorti, figlio di Pietro, capo della fazione dominante a Pisa. Ancora una volta, tuttavia, la scelta pisana fu quella della prudenza: sospesi i processi contro i colpevoli di ribellione, fra il 1386 e il 1389 Pisa fece ulteriori concessioni in campo fiscale a vantaggio di Piombino. La situazione doveva di li a poco conoscere una svolta che avrebbe condizionato la storia della città per diversi secoli successivi: il nuovo signore di Pisa, Gherardo d’Appiano, il cui padre Jacopo aveva nel 1392 rovesciato il governo dei Gambacorti, cedette a Gian Galeazzo Visconti il dominio della repubblica marinara e tenne per proprio conto il territorio di Piombino, con Populonia, Suvereto e Scarlino. Si inaugurava così, nel 1399, il dominio degli Appiani, che si sarebbe protratto ininterrottamente, tranne alcune parentesi, fino al terzo decennio del XVIII secolo.

L’assetto territoriale del 1399 non fu definitivo: gli Appiani cercarono in fatti, per tutto il secolo XV, di consolidare e allargare i confini della loro Signoria, riuscendo ad acquistare già nel 1400 dalla famiglia suveretano massetana dei Todini i castelli di Valle e Montioni ed ottenendo nel 1442, a seguito dell’accomandigia conclusa con Siena, l’Isola d’Elba, Pianosa e Montecristo.

Dal punto di vista dell’organizzazione costituzionale interna, la comunità di Piombino, come tutte le altre comunità dello Stato, si reggeva sulla presenza di Uffici Maggiori e di una serie di Uffici Minori, comprendenti magistrature speciali e cariche ausiliarie. Tali istituzioni erano articolate in modo da garantire una gestione ampia del potere, tramite un’organica alternanza delle cariche; nonostante ciò, nel corso del XVI e ancor più del XVII secolo, la classe dirigente piombinese si trasformò in una sempre più ‘serrata’ e ristretta oligarchia. La base costituzionale degli organi preposti alla direzione ed amministrazione del comune era il “Breve”, vero e proprio ‘corpus iuris’ della comunità; fonti dell’ordinamento giuridico piombinese erano anche gli statuti e i decreti o bandi emanati dal principe.

La citata concentrazione del potere in un ristretto nucleo di persone fu concomitante all’emancipazione di esse dall’autorità signorile: si può individuare l’inizio di tale processo nella Convenzione del 1451 (confermata e ampliata da Cesare Borgia l’8 settembre 1501) fra Emanuele Appiani e la comunità; essa conteneva una serie di concessioni chiaramente a favore dell’economia rurale, sanciva privilegi per i cittadini sopportanti gravezze reali e personali e confermava la supremazia di Piombino sul resto dello Stato. Per la classe dirigente piombinese, infatti, era ormai tramontato il periodo aureo delle fortune marinare e mercantili (in forte sviluppo agli inizi del XV secolo), e le attività principali erano diventate quelle dell’allevamento e dello sfruttamento delle proprietà comuni. Le cause di questo processo di avvicinamento alla terra come fonte primaria delle attività economiche sono riconducibili ad avvenimenti esterni, come la resa di Pisa a Firenze nel 1406 e soprattutto l’acquisto, ancora da parte di Firenze, di Livorno e Porto Pisano nel 1421: questi fatti fecero venir meno ogni ipotesi di sviluppo mercantile e marittimo, tagliarono fuori Piombino dalle vie commerciali fiorentine e la resero scarsamente interessante anche per Siena, che disponeva di altri sbocchi al mare. A ciò va aggiunto il grave problema della pirateria, costante minaccia per il commercio marittimo piombinese. Nonostante ciò, la città conobbe nel secolo XV il suo massimo sviluppo artistico e i momenti più brillanti della signoria degli Appiani: sono di questo secolo la costruzione dell’ospedale della S . S. Trinità, del complesso architettonico della Cittadella e del Chiostro presso S. Antimo opera questi ultimi di Andrea Guardi, artista di grande valore. Anche la fortezza del Rivellino fu costruita in questo periodo, sebbene in una contingenza drammatica: l’assedio di Alfonso d’Aragona, re di Napoli, che per tutta 1’estate del 1448 tentò invano di conquistare la città; i suoi soldati, provati dalla valida resistenza dei piombinesi e indeboliti da una violenta epidemia, furono alla fine costretti a ritirarsi.


Il Rivellino

Solo nel 1507, comunque, Piombino ebbe il riconoscimento ufficiale di “Signoria”; Jacopo IV d’Appiano, assieme al titolo di Signore della città e dello Stato, accettò la protezione e il governo delle armi spagnole in Toscana. NeI 1509 lo Stato venne eletto feudo nobile dell’Impero e infine, nel 1594, fu trasformato in Principato libero e franco del Sacro Romano Impero. Con donna Isabella (1611-1628) ebbe termine il governo degli Appiani. Nel 1628 il re di Spagna Filippo IV assunse l’investitura dello Stato piombinese e a niente valsero i reiterati tentativi di riprendersi il principato da parte di alcuni rami cadetti della famiglia Appiani. Nel 1634 il principato venne “comprato” da Niccolò Ludovisi, principe di Venosa, che in seconde nozze sposò Polissena Mendoza Appiani, figlia dell’ultima principessa di Piombino. Iniziò così il dominio dei Ludovisi che continuerà fino ai primi del ‘700 con i principi Giovan Battista, Olimpia e Ippolita.

I riconoscimenti imperiali, i legami con famiglie illustri italiane e straniere, i trattati di diverso genere stipulati con stati esteri e infine la protezione spagnola, si devono considerare come momenti importanti e vitali, anche se non sempre indolori, per la sopravvivenza dello Stato, che più di una volta, nel corso della sua storia, dovette subire assedi, occupazioni e minacce esterne di non lieve entità. Come in passato, la particolare attenzione che gli stati italiani rivolsero a Piombino è da ricondursi alla sua collocazione geografica, favorevole per il controllo del mare toscano e di una delle vie d’accesso marittimo nella penisola, ma anche all’insieme delle sue risorse, prima fra tutte lo sfruttamento della vena del ferro. Durante il ‘500 Piombino conobbe la ristrutturazione del proprio apparato difensivo e della sua architettura militare, culminata nel 1555 con la realizzazione della fortezza medicea, per ordine del duca di Toscana Cosimo I de’ Medici su un progetto di ampliamento di un preesistente cassero quattrocentesco, ad opera dell’architetto G.B. Camerini.

 
Piombino in un'incisione seicentesca

Nel corso dei secoli XVI e XVII il divario tra l’importanza strategica e militare da un lato, e la consistenza economica, demografica e politica dall’altro, andò sempre più accentuandosi. La struttura politica piombinese in questi secoli assunse caratteri verticistici, dominata da un’oligarchia che provvide, con la riforma del Breve del 1578, a serrare ancor più ranghi, escludendo dall’accesso alle maggiori cariche pubbliche, oltre ai meno abbienti e privi di cultura, anche i ceti artigiani e mercantili. Il tentativo del 1586 da parte di Alessandro Appiani di porre un freno ai privilegi dei piombinesi fu causa della rottura dell’accordo con i cittadini e forse anche del suo assassinio avvenuto nel 1590. Da quella data il gruppo dirigente assunse via via precisi caratteri nobiliari, insignendosi di nuovi titoli militari e accrescendo i propri privilegi, elementi determinanti, questi ultimi, non solo dell’attività politica, ma anche del prestigio sociale e del potere economico. Questo processo di chiusura aristocratica trovò un terreno favorevole nelle prolungate assenze dei principi e nel periodo sempre incombente di dominazioni straniere, nonché nel determinarsi di una situazione demografica veramente grave: in fatti, in seguito alla grande peste del 1630, all’occupazione francese del 1646-50 e ad una serie di altre epidemie tra il 1651 e il 1656 si passò secondo quanto affermano gli storici piombinesi da una popolazione cittadina di circa 4.000 abitanti nel secolo XV ai 2.000 del secolo XVI e a sole 400 unità circa durante il ‘600.

Alla situazione di ‘rifeudalizzazione’ delle istituzioni e delle strutture politiche in generale, e di vera e propria crisi demografica, fece riscontro un parallelo processo di riassetto in senso feudale della proprietà terriera, che si estese su un retroterra economico ancora di modeste dimensioni. Accanto agli acquisti di terre troviamo così acquisizioni di reagalìe e diritti tipicamente feudali, mentre nessuna traccia si ha di processi innovativi nelle tecniche di produzione e nell’utilizzazione del suolo. Ci fu sicuramente un ampliamento del pascolo sul territorio dello Stato, con una relativa diffusione del bestiame, soprattutto minuto, ma in un quadro agricolo-pastorale ancora chiara mente primitivo. La proprietà comunitativa e l’antica proprietà signorile, comprendente sia pascoli e terreni lavorativi che paludi e macchie, subirono una forte erosione ad opera della proprietà privata (laica ed ecclesiastica). A questo processo di redistribuzione fondiaria l’aristocrazia piombinese partecipò solo in veste di piccola e media proprietaria, specializzata nella cerealicoltura e nell’allevamento del bestiame; le proprietà più estese furono appannaggio degli enti ecclesiastici e di forestieri.

Fonte di reddito quasi esclusiva dei principi restarono le attività legate al ferro e all’allume, nonché le attività marittime, come aspetto queste ultime. della politica internazionale dello stato. In mezzo alla descritta situazione di stagnazione politica ed economica appaiono come elementi di innovazione tutti i tentativi che furono fatti alla fine del secolo XVII, durante il principato di G.Battista Ludovisi, per dare nuovo impulso ai traffici e all’andamento demografico e per il riordinamento dello stato. Sono di questi anni, infatti, l’Editto sul Porto Franco (emanato per la prima volta nel 1677), che offriva facilitazioni fiscali per lo scalo di merci a Piombino, l’Editto sugli Ebrei (1695) per favorire l’immigrazione ebraica nello stato e quindi incrementare la popolazione e il commercio, le opere di miglioramento delle attrezzature portuali, i progetti per l’impianto di nuove manifatture e la riorganizzazione della zecca.

All’alba del secolo XVIII la dinastia dei Ludovisi si estingueva e la guida del Principato passava ad un ramo del nobile casato romano dei Boncompagni. Questo cambiamento verificatosi sulla scena politica non si accompagnò, tuttavia, almeno nell’immediato, ad un miglioramento della situazione generale del piccolo Stato, che, anzi, proprio nei primi decenni del ‘700 vide ulteriormente avanzare il suo declino, come testimoniato anche dal saccheggio delle prime case della città operato nel 1726 da corsari maltesi e barbareschi, facilitati nella propria impresa dall’ormai pessimo stato delle mura sui lato del mare. A questo ulteriore aggravamento del processo di decadenza contribuivano del resto sia i riflessi negativi del perdurare di una congiuntura economica e demografica sfavorevole a livello italiano ed europeo, sia una certa instabilità della vita politica locale, direttamente coinvolta nelle vicende del conflitto austro-spagnolo.

Bisognò infatti attendere fino circa alla metà del ‘700, quando in tutta Europa si vennero a creare condizioni più favorevoli ad una inversione di tendenza, perché anche il principato di Piombino mostrasse i primi sintomi di un certo risveglio, ravvisabile in particolare in una espansione dei traffici marittimi e in un andamento demografico crescente. Tale periodo di ripresa, che si protrasse per tutta la seconda metà del ‘700, coincise sotto il profilo politico con i due principati di Don Gaetano e del figlio Don Antonio i quali, pur dimorando lontano da Piombino, furono capaci da far sentire anche qui, in qualche misura, gli effetti delle spinte modernizzatrici ed illuministiche dei nuovi tempi. Di Gaetano sono ad esempio degni di nota l’attivazione di un nuovo censimento ed il tentativo di rivitalizzare il settore del lanificio, ormai in netto declino, facendo immigrare a Piombino dodici esperte famiglie olandesi; di Antonio soprattutto la politica di incoraggiamento degli studi. Ma a questi segnali di risveglio della vita cittadina e degli scambi marittimi faceva riscontro il gravissimo stato di dissesto idraulico delle campagne circostanti. Esso era il frutto di un processo di degradamento di lungo periodo, avviatosi nell’alto medioevo e intensificatosi, così come in tutta la Maremma toscana, a partire alla fine del ‘500, in conseguenza della successiva recessione agricola e demografica, e della pressoché assoluta mancanza di iniziative bonificatorie, che neppure sotto gli ultimi Boncompagni-Ludovisi trovarono completa attuazione.

E’ così che verso la fine del ‘700 l’ampia pianura del principato appariva come non mai in precedenza costellata di aree acquitrinose. Le più estese erano quelle del Padule di Piombino, presso la foce del Cornia, e del Padule di Scarlino. Altri pantani minori lambivano il tratto costiero meridionale a Torre Mozza e a Prato Ranieri, mentre più a nord erano presenti alla Sdriscia e intorno al lago di Rimigliano. Ma oltre a queste aree circoscritte gran parte della fertile pianura piombinese andava soggetta ad impaludamenti a carattere temporaneo, causati dalle numerose rotture degli argini del Cornia e dal generale degrado della rete dei fossi di scolo, ormai quasi tutti di minima profondità e quindi incapaci di assicurare un adeguato smaltimento delle acque. In certi periodi dell’anno accadeva così che le stesse terre a grano assomigliassero piuttosto a delle vaste risaie. Proprio nel periodo in cui, sotto l’influenza delle idee fisiocratiche, in Italia e in Europa tendeva ad affermarsi la centralità dell’agricoltura come fonte della ricchezza sociale, il piccolo stato di Piombino, la cui importanza come centro portuale risultava decisamente ridimensionata dall’ascesa di Livorno, doveva pertanto fare i conti con l’avanzare di una situazione di disordine idraulico che limitava sempre più le possibilità di sfruttamento agricolo del proprio entroterra. Dal l’acquitrinio, che sottraeva alla coltivazione i terreni potenzialmente fertili della pianura alluvionale, prendeva origine la malaria, che ogni estate si propagava con notevole intensità su gran parte del territorio. Il raggio di diffusione della malattia, a quanto pare, non giungeva ad abbracciare la città, dove si poteva vivere con una certa sicurezza per tutto l’anno. Ma per chi, nel periodo estivo era costretto ad abbandonare le mura di Piombino per recarsi a lavorare nella vicina pianura, era assai difficile sfuggire alle febbri cosiddette ‘di Maremma’.

Paludi e malaria. Attorno a questo binomio di carattere ambientale la realtà rurale del territorio piombinese era ormai venuta strettamente a modellarsi, assumendo tutta una serie di connotati strutturali che avrebbero lasciato a lungo la propria impronta sul piano paesaggistico, sociale e produttivo, e che ne avrebbero incanalato il percorso storico fino a tempi molto recenti, cioè fino alla definitiva ed integrale bonifica attuata solo nel secondo dopoguerra. Gli ostacoli di natura sanitaria frapposti alla colonizzazione della pianura si traducevano infatti nella mancanza di un insediamento rurale di tipo sparso; nella permanenza di ampie aree di pascoli e di incolti macchiosi; nel consolidarsi di un sistema agrario fondato sulla combinazione della cerealicoltura estensiva con l’allevamento brado di bovini, equini e bufali; nel predominio di forme di conduzione basate su ricorso a manodopera stagionale forestiera proveniente soprattutto dalla montagna, alla quale il territorio piombinese offriva anche buone pasture per lo ‘sverno’ del bestiame ovino transumante. Accanto a questi, nella seconda metà del ‘700 un altro tratto caratteristico della società rurale di gran parte della Maremma tendeva ad affermarsi nel territorio piombinese: il predominio della proprietà latifondistica. Il versante litoraneo del principato veniva infatti a concentrarsi saldamente nelle mani di due sole famiglie, entrambe di origine pisana: i Desideri e i Franceschi. I primi possedevano, oltre al castello di Populonia, un’ampia distesa di terra che abbracciando il monte Massoncello giungeva fino alla Torraccia; mentre i secondi si appropriarono dell’intero tratto costiero meridionale fino ai piedi di Scarlino, compreso l’insediamento di Vignale. Ai piombinesi non restava che una piccola porzione di terreno nelle immediate vicinanze della città, decisamente insufficiente alla sussistenza di tutte le famiglie agricole, le quali continuavano a rappresentare la maggior parte della popolazione locale. Molte di esse si vedevano pertanto costrette a prendere in affitto piccoli appezzamenti dai tenutari pisani, o a fornire loro prestazioni di manodopera come taglialegna, carbonai e braccianti agricoli; la presenza di questi ultimi era particolarmente importante nelle stagioni di punta dei lavori agricoli quali la mietitura e la trebbiatura dei grani.

Una autentica ondata di rinnovamento investi Piombino nei primi anni dell’ 800 quando, dopo la conquista francese, il piccolo stato fu dapprima aggregato direttamente all’Impero napoleonico, poi concesso insieme a Lucca ad Elisa Bonaparte, sorella di Napoleone, ed al marito Felice Baciocchi.


Moneta del Principato

Come nel resto d’Italia la parentesi napoleonica diede una forte scossa al vecchio ordinamento politico, economico, amministrativo e fiscale, influendo in profondità sulla società civile piombinese. Del resto, il riconoscimento dei tradizionali caratteri di autonomia di Piombino stava in qualche misura ad indicare un interesse dei nuovi sovrani a mantenere in vigore e rilanciare il ruolo ed il prestigio della città e del suo territorio. Oltre alla pubblicazione di un nuovo codice rurale, sotto Elisa furono infatti emanati importanti decreti relativi alla vendita dei beni demaniali, all’eversione della feudalità, all’istituzione di scuole primarie sul modello francese e dell’Ufficio del Registro, allo stabilimento del bagno penale e al riordinamento delle milizie. Notevole fu anche l’impegno nel campo delle opere pubbliche, tra le quali merita particolare attenzione la costruzione della strada carrozzabile della ‘Principessa’, che contribuì a rendere meno problematici i collegamenti terrestri della città. Furono anche avanzati importanti progetti per il risanamento idraulico del territorio e per l’escavazione del Porto Vecchio, seppure entrambi rimasti irrealizzati per il rapido esaurirsi della parabola napoleonica. Certo è che la stagione francese portò a Piombino un profondo risveglio della società civile e della vita urbana, al punto che in questi anni la città si meritò, significativamente, l’appellativo di ‘piccola Parigi’.

Con la caduta di Napoleone le sorti di Piombino passavano sui tavoli dei diplomatici europei riunitisi al Congresso di Vienna nel 1815. Nonostante i reclami di Luigi Boncompagni-Ludovisi per riottenere la sovranità sul promontorio, fu stabilito che tutto il territorio dell’ex-principato fosse annesso interamente al granducato dì Toscana dietro corresponsione di un indennizzo ai vecchi sovrani. Con questo atto si chiudeva definitivamente un lunghissimo periodo storico di autonomia politica di Piombino: la città cessava di essere, infatti, una delle poche ‘capitali’ d’Italia, seppure di rango minore, per divenire uno dei tanti capoluoghi di comunità della Toscana, peraltro con un territorio considerevolmente ridotto rispetto a quello dell’ex-principato. Una cesura storica che non poteva non ridimensionare profondamente l’immagine ed il prestigio della città, riducendo bruscamente di spessore una identità urbana che proprio negli anni immediatamente precedenti aveva goduto di un rinnovato vigore. Nel 1860 nel granducato - Toscana, e quindi anche l’antico territorio dell’ex principato di Piombino, si unirono al regno d’Italia di Vittorio Emanuele II.

Da quella data iniziò per Piombino una nuova era di lavoro e di sviluppo, con l’insediamento degli impianti siderurgici che avrebbero fatto di Piombino uno dei maggiori centri industriali d’Italia. Conseguenza diretta fu l’enorme sviluppo urbano e demografico, fino agli attuali 35.000 abitanti.  

MAURO CARRARA
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